Margherita Ianniello

Nome della scuola: 
IC Grumello del Monte
Città: 
Bergamo
Regione: 
Lombardia
Disciplina/e Insegnata: 
Lettere
Descrivere la propria storia di educatore, di impegno, innovazione e determinazione legata al proprio contesto scolastico: : 
Ho lavorato per quasi 20 anni in un liceo classico di scuola paritaria, con grandi soddisfazioni. Da 5 anni lavoro in una secondaria di primo grado statale. Diversissimi contesti, entrambi belli e stimolanti. Nella scuola in cui attualmente lavoro ho potuto adottare strategie di insegnamento adeguate ai ragazzi di oggi, stimolati continuamente dalle tecnologie. La loro concentrazione non va oltre i 20 minuti: bisogna cambiare di continuo i canali comunicativi, sfruttando le tecnologie, le immagini, i suoni ... E' quello che cerco di fare. In particolare cerco di far passare i contenuti disciplinari attraverso metodologie nuove che affiancano quelle tradizionali: testi, ascolto, video, cooperative learning ... e ho inserito la metodologia LABORATORIALE, secondo me vincente ed inclusiva, in quanto tutti si possono esprimere e nessuno è escluso. Conduco diverse attività in questo modo: - il laboratorio teatrale, in cui sono in gioco corpo, spazio, voce, ascolto, nella più spontanea semplicità; quest'anno abbiamo realizzato video e podcast, non potendo realizzare spettacoli; - il laboratorio sul bullismo e sul cyberbullismo, in cui i ragazzi si sentono protagonisti; - il laboratorio di life skills training program, che ha la caratteristica del circle time e del role playing; - il laboratorio sulle fiabe, in cui si parte da testi che vengono poi attualizzati; - il laboratorio con il teatro di BG DONIZETTI, svolto quest'anno a distanza; - i laboratori di scrittura, in cui i ragazzi scoprono che "sanno scrivere", anche se nei temi "non sono bravi", scoprono la bellezza e l'importanza della scrittura. ... e tanto altro ...
Descrizione di come è stata affrontata l’emergenza da COVID-19 con i propri studenti:: 
Riporto qui alcuni miei articoli scritti durante l'emergenza COVID: 1. RARAE AVES Esperienza di scuola e teatro a distanza Ho cominciato a pensare di dover raccontare a qualcuno un’esperienza straordinariamente bella vissuta come docente in questi mesi di pandemia dopo che un collega mi ha definita “rara avis” mentre gliene parlavo al telefono. Quasi tutti (o forse tutti) i laboratori teatrali previsti nelle scuole per quest’anno scolastico sono stati annullati o, nella migliore delle ipotesi, rinviati a data da destinarsi, con grande rammarico degli studenti, di alcuni docenti e degli operatori teatrali. Noi abbiamo provato a portarlo avanti. “Noi” siamo io, una docente di lettere presso la scuola secondaria di primo grado di Grumello del Monte, e Damiano Grasselli, direttore artistico e attore di Teatro Caverna, un piccolo teatro nel quartiere di Grumello del Piano a Bergamo, che, rispondendo a un alunno in merito all’importanza del teatro, ha scritto: “Il teatro nasce da una ricerca umana. E rimane speciale per l’uomo perché è una misteriosa indagine delle grandi domande che ciascuno di noi si fa”. Damiano lavora con noi a scuola da quattro anni, proponendo laboratori ai ragazzi di prima e di seconda, con l’idea che ogni progetto debba partire dall’incontro e dalla relazione e che la finalità non sia quella di realizzare uno spettacolo di grandi attori, ma quella di stare insieme divertendoci, ascoltandoci e imparando a gestire il nostro corpo e la nostra mente nella relazione con l’altro. È un’idea che si sposa perfettamente con il mio modo di vedere la scuola come ambiente di vita, in cui si cresce e si apprende insieme e in cui il teatro può fare tanto. Il docente è colui che insegna ed educa, che lascia un segno (in + signare) e che conduce fuori (ex + duco). Lascia un segno, di qualunque natura esso sia, positivo o negativo, comunque determinante per la crescita dei suoi studenti: tutti ricordiamo i segni che i nostri insegnanti ci hanno lasciato; li benediciamo o li malediciamo a seconda che essi siano sentieri ben tracciati da seguire o ferite profonde. Il docente lascia il segno non certo introducendo conoscenze come in un imbuto, per riempire un vaso vuoto, pensiero del retore latino Quintiliano, ma piuttosto cercando di tirare fuori quanto il discente ha già dentro di sé, educando appunto, alla maniera socratica e platonica. In questo momento particolare, come docente, ho ritenuto giusto non mettere in primo piano la didattica in senso stretto, intesa come insieme di conoscenze e contenuti, che pure c’è stata, ma il benessere degli studenti, bambini, ragazzi e adolescenti, che si sono trovati chiusi in casa con i fratelli e i genitori, quelli che abitualmente sono “i loro nemici”, quelli con cui si sfogano e contro cui hanno sempre da ridire, lontani dagli amici e da figure di riferimento con cui confidarsi e in cui cercare conforto. Ho cercato (non so se sono riuscita) di dar loro un ritmo, di aiutarli a capire che il tempo ha un senso e che vale la pena di vivere la vita in qualsiasi modo essa si presenti. E allora più che pensare a interrogazioni e verifiche e programmi e voti e note e arrabbiature per le mancanze e i ritardi, mi sono educata a vedere il buono che i ragazzi mi hanno dato, a stare nella relazione con loro, a creare un percorso di crescita con loro, che favorisse la maturazione e di conseguenza l’apprendimento. Certa che la scuola non sia una macchina nozionistica basata su aridi criteri valutativi, ho provato a incanalare moduli e burocrazia (che ci sono e vengono richiesti), lezioni e compiti in un’ottica di buonsenso e di umanità, che facesse sentire gli alunni esseri umani degni di rispetto e degni di essere ascoltati. Il teatro mi ha aiutato a trasformare il sapere in un bagaglio personale piuttosto che in un’inutile somma di informazioni e nozioni che poi si scordano. Noi dunque, io e Damiano, abbiamo accettato la sfida di una Dirigente illuminata, la dottoressa Nicoletta Bassi dell’IC di Grumello del Monte, che ha pensato che il teatro potesse far parte della didattica a distanza (espressione ossimorica che detesto) ed essere un modo per tenere uniti gli alunni e che ha scelto di non interrompere un percorso già avviato e (perché no?) di dare una mano a professionisti in questo momento forzatamente fermi e poco visti o non visti dal sistema, a volte in difficoltà economica. È bastata un po' di creatività, unita alla voglia di metterci in gioco e di pensare al nostro mestiere in modo diverso: abbiamo provato a svolgere il nostro lavoro reinventandolo, forse un po' dimenticando il nostro ruolo e facendo procedere in sintonia, anche se da lontano, le nostre idee e le nostre passioni. Ingrediente fondamentale è stato poi l’entusiasmo dei ragazzi: il loro coinvolgimento, la loro partecipazione, la loro voglia di fare scuola divertendosi e insieme imparando (hanno spesso usato i due verbi insieme) sono stati i motori più importanti per mandare avanti il progetto. Come può la didattica, oltretutto in remoto, legarsi al teatro? Didattica e teatro non sono mondi chiusi. Non dobbiamo vederli come tali: sarebbe la loro morte. La voce, la lettura, la storia, la letteratura, i sensi, i suoni hanno fatto da collante. È mancata la presenza. Teatro e scuola sono anzitutto presenza, incontro, relazione, sguardi, corpi, mani, movimento, odori. Questo è mancato. Ma non ci siamo fermati, neanche di fronte ad alcune affermazioni come: "È impossibile fare un laboratorio di teatro a distanza. E poi ... il programma?". Impossibile fare teatro a distanza: questo è evidente. Nel teatro è centrale la relazione tra attore e pubblico: “il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza uno spazio scenico separato, senza gli effetti di luce e suono ... ma non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta”, dice Jerzy Grotowski. Ma un laboratorio teatrale non è teatro: può essere un laboratorio sul teatro o che del teatro ha alcune caratteristiche; la sua finalità non è quella di arrivare a uno spettacolo con un pubblico, a una messa in scena, ma quella di stare insieme, di divertirsi insieme, di crescere insieme, di percorrere insieme un pezzo di vita, di condividere qualcosa. E qui siamo arrivati. Gli alunni sono stati insieme, hanno lavorato su di sé, hanno imparato ad ascoltare la voce dell'attore e dei compagni, hanno provato emozioni, si sono divertiti, hanno giocato con il mondo greco o con quello medievale o con Tasso, Shakespeare, Cervantes, Goldoni e con i suoni e i sensi. Abbiamo creato insieme bellissimi lavori, condivisi anche con le famiglie, cosa rarissima a scuola. L'attore ha scelto testi che ama, ha letto cose bellissime, si è divertito a fare un po' di giochi con la voce, ha riflettuto sul suono, ha ascoltato pazientemente le richieste dei ragazzi e della profe, talvolta si è commosso rispondendo alle loro domande. L'insegnante a sua volta ha esercitato l'arte dell'ascolto, ha provato emozioni forti, ha tradotto in attività parole, suoni e video, si è divertita con i ragazzi, ha sperimentato modalità di lavoro nuove, decisamente arricchenti per la sua professione. Tutto questo è accaduto attraverso una piattaforma, filtrato da uno schermo. Ma è accaduto. “E il programma?” Il programma è stato svolto tutto e in un modo, credo, che i ragazzi ricorderanno più di come lo avrebbero ricordato se avessero partecipato a lezioni frontali (che comunque non sono l’unico modo di procedere a scuola, per fortuna), seguite da interrogazioni e da verifiche conclusive. Il nostro laboratorio non ha una fine: potrebbe andare avanti all’infinito, perché è luogo di competenze di vita. Damiano ha salutato i ragazzi di prima C, che hanno lavorato sul teatro greco e su alcune audioletture descrittive in poesia e in prosa, così: “Ciao a tutti, ragazzi. Vi ringrazio per le tante e belle parole che mi avete dedicato: mi sono commosso. Per me è stato divertente pensare con voi il teatro in questa forma “particolare” e sono contento che vi abbia fatto sorridere. Credo che il nostro sia proprio stato un agone: ci siamo sentiti parte di un momento speciale per la nostra piccola classe/comunità, esattamente come i Greci. Abbiamo dialogato. Abbiamo imparato e domandato. E questo lo abbiamo fatto insieme: questo è il teatro, io e te insieme! La distanza e la tecnologia non ci hanno “favorito”; sarebbe stato meglio vedersi, darsi una pacca sulle spalle, sentirsi ridere, sbaciucchiarsi… non è stato possibile, ma queste cose non dimenticatele mai, perché sono la fonte del vostro modo di essere e vivere”. Ai ragazzi di seconda C, che hanno lavorato sul teatro medievale e su alcune audioletture letterarie (Gerusalemme Liberata, monologhi di Shakespeare, Cervantes, Locandiera di Goldoni) ha invece dedicato queste parole: “Cari ragazzi, ogni volta che leggo i vostri testi sono contento e sorrido di allegria, perché penso diciate e scriviate cose molto belle e profonde e degne di essere lette. È un momento di pace quando arrivano i vostri scritti. Grazie. Le parole che usate per descrivere il teatro, per riflettere sul monologo di essere o non essere, per parlare della vita e del teatro che gioca con la vita reale… sono parole che molte persone della mia età hanno dimenticato: delicatezza, serietà, impegno, coordinazione, parola, silenzio… non dimenticatele mai, voi che avete una così importante missione nella vita: fare sì che queste cose proseguano ed abbiano un valore importante, sempre!”. Io stessa, rivolgendomi ai ragazzi di prima ho scritto: “Mi ha colpito l’idea geniale di Damiano di organizzare un agone teatrale e ancor più mi ha colpito il modo in cui lo ha pensato. Mi ha sorpreso il fatto che a vincere il nostro agone sia stata una tragedia, l’“Antigone” di Sofocle. Mi aspettavo vincessero le “Rane”, una commedia. Forse questo periodo “speciale” che stiamo vivendo vi ha portato a riflettere sulla vita e sulla morte, esattamente come fanno le tragedie greche: molti di voi hanno sottolineato proprio il tema della morte come motivo della scelta. Altri hanno invece espresso il loro voto per la modalità espositiva dell’attore, che ha raccontato le due tragedie come fossero commedie e vi ha divertito. Questo mi fa pensare che abbiate voglia di tornare a ridere e a divertirvi. Ed è giusto. Il teatro è entrambe queste cose: riflessione e divertimento. La vita è entrambe queste cose: riflessione e divertimento. In questo percorso dunque avete conosciuto un po’ il teatro e avete messo in gioco un po’ la vostra vita: questo è molto bello, perché a scuola si impara a giocare la vita”. E agli alunni di seconda: “Il lavoro sul teatro ha coinvolto molto anche me, perché è una delle mie passioni. Rivisitarlo in modo diverso, con voi, è stato stimolante. Vi ringrazio per esservi messi in gioco nelle risposte che avete dato e per aver accettato la sfida di un laboratorio sul teatro a distanza, senza corpi, senza voci, senza sguardi. Avete saputo comunque ascoltare e percepire, vi siete aperti e vi siete lasciati conoscere”. Alcune testimonianze tra le tante dicono anche il punto di vista degli studenti. “Questo percorso di teatro mi ha fatto divertire tantissimo con cose nuove che abbiamo scoperto pian piano durante ogni puntata e mi dispiace che sia finito, ma l’importante di ogni cosa che finisce è ricavare qualcosa di bello, che non si scorderà mai, perché queste cose le fai una volta nella vita e io in questo percorso ho ricavato che il teatro è molto bello. All’inizio del percorso pensavo che dovessi solo recitare: in realtà puoi esprimerti, liberarti da qualcosa e divertirti un sacco”. “Non mi aspettavo questo modo di fare teatro: mi ha incuriosito molto e mi ha fatto imparare molte cose che magari mi serviranno in futuro. Mi è sembrata un’esperienza bella e giusta per i ragazzi della nostra età, anche perché Damiano e la profe hanno reso tutto divertente e ci hanno incoraggiato a farci esprimere i nostri pensieri. Ci hanno dedicato il loro tempo e non si sono fermati, nonostante la distanza”. “In questo periodo particolare in cui siamo stati a casa il teatro ci ha aiutato a evadere e a svagarci e ci ha fatti stare insieme”. La didattica a distanza dunque, se vissuta come temporanea educazione alla distanza, non è da demonizzare del tutto: ci sono state esperienze significative che alcuni docenti e alunni hanno vissuto e racconteranno, esperienze di scuola e di vita. Chi aveva costruito con i docenti relazioni di rispetto e di dialogo e vissuto con i compagni esperienze culturali e umane di un certo valore è riuscito a stare sulle piattaforme con più facilità, senza dispetti, noia e sospetti, con desideri ancora accesi e interessati. La scuola è stata comunque un luogo di riconoscimento, di identità, soprattutto in assenza di altre attività e luoghi di ritrovo. Certo bisogna evitare l’errore di esagerare e sopravvalutare la portata di tutto questo. La scuola resta luogo di incontro e di alchimie emotive che a distanza si perdono. 2. Didattica a distanza o educazione alla distanza? Dal mese di marzo la scuola è stata chiamata a vivere una situazione inedita, del tutto inattesa, imprevista e imprevedibile. La routine quotidiana, così ben segnata e ritmata dal suono della campanella allo scadere di ogni ora di lezione, si è improvvisamente interrotta. In una fase dell’anno che aveva il sapore della pausa (fine quadrimestre e Carnevale) gli studenti si sono trovati a casa, liberi e felici i primi giorni per l’insperata vacanza, con il panico dei genitori; annoiati e stanchi subito dopo, con il forte dichiarato desiderio di tornare sui banchi, che stupiva loro stessi. Diversamente da quel che capita nelle emergenze come terremoti o alluvioni, in cui da sfollati ci si trova tutti uguali dentro una tenda, nella reclusione domestica di questi mesi di pandemia le famiglie si sono trovate isolate, con dotazioni tecnologiche, spazi, risorse, competenze e tempi da dedicare alla scuola differenti, ciascuna nel proprio status: la scuola ha contribuito suo malgrado a sottolineare le differenze di classe, facendo perdere i contatti ai più fragili. I docenti sono stati prima invitati e poi obbligati alla “didattica a distanza”, subito sintetizzata con l’acronimo DaD, per non smentire la moda delle infinite sigle che negli ultimi anni caratterizzano il linguaggio scolastico o scolastichese, quasi incomprensibile per chi non è del mestiere. Didattica a distanza è un ossimoro stridente per chi crede che la scuola sia luogo di vicinanza, di incontro, di integrazione e di relazioni personali, fatto di presenza, sguardi, suoni e rumori, profumi e odori. Gli insegnanti si sono da subito dati da fare, aggiornandosi con le più moderne tecnologie, tante volte biasimate e vituperate durante le loro lezioni. L’uso di strumenti tecnologici nella didattica, spesso invocato e reclamato da più parti, è diventato realtà, con una corsa all’aggiornamento da parte di tutti, anche di quelli più restii per età anagrafica. Moltissimi insegnanti per la prima volta hanno sperimentato videoconferenze, aule virtuali e le mille risorse delle piattaforme digitali, si sono rimboccati le maniche in modo più o meno ingegnoso e creativo, hanno studiato e chiesto consigli. Piattaforme, social, tablet, computer sono diventati una quotidianità quasi ossessiva. Le scuole sono state più “fortunate” degli ospedali, perché è stato abbastanza facile trovare i dispositivi utili per una didattica alternativa, grazie anche agli immediati finanziamenti ricevuti dal Governo, discutibili se poi si pensa che alcune famiglie, non avvezze all’utilizzo di strumenti tecnologici, si sono ritrovate in casa un tablet o un pc, senza le competenze per utilizzarli, ma avendo magari il problema contingente di fare la spesa e sfamare tutti, a causa della perdita del lavoro. Ma questo è un altro discorso. Quasi tutte le scuole e quasi tutti i docenti ce l’hanno fatta: tranne poche eccezioni, ognuno continua a fare la sua parte, con coscienza deontologica e senso del dovere. Il nodo vero però non sta qui. Superato il problema tecnico, la questione seria da affrontare con ragionevolezza è stata quella dell’assenza della scuola reale e del senso di questa attuale “scuola”. Si tratta di scuola anzitutto? Si può parlare di classe senza un luogo di vita e di lavoro comune? Per bambini, ragazzi e adolescenti i mesi sono pieni di eventi, esperienze, cambiamenti; altre abitudini hanno preso il posto della scuola. Il lavoro a cui sono chiamati i docenti e gli studenti è molto diverso da quello abituale. È una sfida per tutti e come tale va affrontata. È inutile arroccarsi su posizioni troppo conservatrici e fingere che questa realtà non ci sia. È inutile far finta che sia tutto normale (posto che la normalità esista), come prima, e pretendere di far passare i contenuti disciplinari allo stesso modo e di raggiungere i medesimi obiettivi. Va tutto rivisitato e ripensato. Lo sforzo e la fatica richiesti sono ingenti, soprattutto perché è necessario mettersi in discussione come professionisti e come uomini, cosa assai difficile. Non si tratta solo di trovare modalità nuove di approccio con i ragazzi, tecniche innovative di insegnamento e condivisione, di invio e ricezione di compiti; si tratta di interrogarsi sulla propria professione e sul proprio ruolo. Del resto ce n’era bisogno, visto che oggi i docenti sono scambiati per tuttologi: insegnanti, educatori, terapeuti, psicologi ... Il docente insegna ed educa. Partiamo da qui. INSEGNARE (in + signare) significa lasciare un segno. EDUCARE (ex + duco) significa condurre fuori. Il docente lascia un segno nell’animo dei suoi studenti, di qualunque natura esso sia, un segno positivo o negativo, un segno comunque determinante per la crescita di una persona. Quante volte nella vita ricordiamo i segni che i nostri insegnanti ci hanno lasciato! Li malediciamo o li benediciamo a seconda che essi siano ferite o siano sentieri ben tracciati da seguire. Il docente lascia il segno non certo versando conoscenze come in un imbuto per riempire un vaso vuoto, idea questa che aveva il retore Quintiliano, ma piuttosto cercando di condurre fuori quanto il discente ha già dentro di sé e aspetta di essere attivato, educando appunto, alla maniera socratica e platonica. E allora in questa fase particolare la didattica in senso stretto, intesa come insieme di conoscenze e contenuti, che pure c’è per forza legislativa, non è in primo piano (posto che in presenza lo sia e lo debba essere). Prioritario è il benessere degli studenti, della generazione dei bambini, dei ragazzi e degli adolescenti che si trovano chiusi in casa con fratelli e genitori, quelli che abitualmente sono “i loro nemici”, quelli con cui si sfogano e contro cui hanno sempre da ridire. Sono lontani dagli amici e da figure di riferimento con cui confidarsi e in cui cercare conforto. Il docente, con tutti i suoi limiti, ha il compito di dar loro un ritmo, di aiutarli a capire che il tempo ha un senso, che la vita in questo momento è così e vale la pena comunque che sia vissuta, di aiutarli a capire se stessi. E allora, forse, più che pensare a interrogazioni e verifiche e programmi e voti e note e arrabbiature per le mancanze e i ritardi, il docente deve educarsi a vedere il buono che i ragazzi danno, a stare nella relazione con loro, a creare un percorso di crescita con loro, che favorisca la maturazione e di conseguenza l’apprendimento. La scuola non è una macchina nozionistica basata su aridi criteri valutativi. Moduli e burocrazia (che ci sono e vengono richiesti), lezioni e compiti vanno incanalati in un’ottica di buonsenso e di umanità, che faccia sentire gli alunni esseri umani degni di rispetto e degni di essere ascoltati. Quel che conta maggiormente è la partecipazione degli alunni, il fatto che ci siano, che accettino la relazione, che riflettano e provino emozioni, dimostrando impegno e responsabilità, che sono, molto più di prima, affidati a loro. Una testimonianza fra le tante Un attore e una docente hanno provato a fare teatro con i ragazzi, accettando la sfida di una Dirigente illuminata, che ha pensato che il teatro, attività già avviata e che sarebbe rimasta sospesa, potesse essere un modo per tenere uniti gli alunni e che ha scelto (perché no?) di dare una mano a professionisti in questo momento forzatamente fermi e poco visti o non visti dal sistema, a volte in difficoltà economica. È bastata un po' di creatività, unita alla voglia di mettersi in gioco e di pensare al proprio mestiere in modo diverso, da parte di due persone, una docente e un attore appunto, che hanno provato a svolgere il loro lavoro reinventandolo, forse un po' dimenticando il loro ruolo e facendo procedere in sintonia, anche se da lontano, le loro idee e le loro passioni. Ingrediente fondamentale è stato poi l’entusiasmo dei ragazzi: il loro coinvolgimento, la loro condivisione, la loro voglia di fare scuola divertendosi e insieme imparando (hanno spesso usato i due verbi insieme) sono stati i motori più importanti per mandare avanti il progetto. Impossibile fare teatro a distanza: questo è evidente. Nel teatro, come nella scuola, è centrale la relazione tra attore e pubblico: “il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza uno spazio scenico separato, senza gli effetti di luce e suono ... ma non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta”. (Jerzy Grotowski) Ma un laboratorio teatrale non è teatro: può essere un laboratorio sul teatro o che del teatro ha alcune caratteristiche; la sua finalità non è quella di arrivare a uno spettacolo con un pubblico, a una messa in scena, ma quella di stare insieme, di divertirsi insieme, di crescere insieme, di percorrere insieme un pezzo di vita, di condividere qualcosa. L’attore ha concluso il lavoro scrivendo ai ragazzi: “Credo che il nostro sia proprio stato un agone: ci siamo sentiti parte di un momento speciale per la nostra piccola classe/comunità, esattamente come i Greci. Abbiamo dialogato. Abbiamo imparato e domandato. E questo lo abbiamo fatto insieme: questo è il teatro, io e te insieme! La distanza e la tecnologia non ci hanno “favorito”; sarebbe stato meglio vedersi, darsi una pacca sulle spalle, sentirsi ridere, sbaciucchiarsi… non è stato possibile, ma queste cose non dimenticatele mai, perché sono la fonte del vostro modo di essere e vivere”. E la docente ai ragazzi ha scritto: “Mi ha sorpreso il fatto che a vincere il nostro agone sia stata una tragedia, l’Antigone di Sofocle. Mi aspettavo vincessero le Rane, una commedia. Forse questo periodo “speciale” che stiamo vivendo vi ha portato a riflettere sulla vita e sulla morte, esattamente come fanno le tragedie greche: molti di voi hanno sottolineato proprio il tema della morte come motivo della scelta. Altri hanno invece espresso il loro voto per la modalità espositiva dell’attore, che ha raccontato le due tragedie come fossero commedie e vi ha divertito. Questo mi fa pensare che abbiate voglia di tornare a ridere e a divertirvi. Ed è giusto. Il teatro è entrambe queste cose: riflessione e divertimento. La vita è entrambe queste cose: riflessione e divertimento. In questo percorso dunque avete conosciuto un po’ il teatro e avete messo in gioco un po’ la vostra vita: questo è molto bello, perché a scuola si impara a giocare la vita”. Come dimostrano numerose testimonianze, una per tutte riportata in queste pagine, la didattica a distanza, se vissuta come temporanea educazione alla distanza, non è da demonizzare: ci sono state esperienze significative che alcuni docenti e alunni hanno vissuto e racconteranno, esperienze di scuola e di vita. Chi aveva costruito con i docenti relazioni di rispetto e di dialogo e vissuto con i compagni esperienze culturali e umane di un certo valore riesce a stare sulle piattaforme con più facilità, a condividere anche attraverso gli schermi, senza dispetti, noia e sospetti, con desideri ancora accesi e interessati. La scuola è comunque un luogo di riconoscimento, di identità, soprattutto adesso che c’è solo la casa e non ci sono altre attività e luoghi di ritrovo. Ma sarebbe un errore esagerare e sopravvalutare la portata di tutto questo. Qualcuno si chiede già se questa possa essere una condizione valida ad oltranza, una reale, autentica accelerazione verso un nuovo tipo di scuola. Qualcuno è convinto che una scuola che cambia, che sta al passo con i tempi, che ottimizza le nuove tecnologie, impiegandole senza abusi, non sia poi così male. Il rischio che questa diventi la scuola del futuro è realistico e palpabile. Ma la scuola non deve e non può diventare questo. Gli strumenti usati si rivelano utili per fare fronte a situazioni emergenziali come l’attuale, ma si tratta appunto di condizioni straordinarie perché trascendono l’ordinario. La scuola, quando possibile e in sicurezza, dovrà ricostruire rapporti interrotti e rendere ancora l’aula un luogo affettivamente e culturalmente accogliente. Il contatto diretto tra docente e studente è insostituibile, perché si insegna anche con l’esempio, con la testimonianza di vita, con la coerenza, aspetti che per natura non possono essere rimpiazzati da qualsivoglia ‘soluzione tecnica’. Cosa è un’esperienza educativa e di apprendimento culturale senza gli scambi e i corpi? Ogni forma di conoscenza ha bisogno di desiderio vivo, di carne, di parola autentica per esistere. Quel che si sta vivendo non è la nuova frontiera della pedagogia, come da certi umori si percepisce, ma un contributo di riflessione per la futura nuova scuola nelle vecchie amate/odiate aule, dove si tornerà, forse, con più profondità e più dolcezza, nella consapevolezza che i preesistenti mali della scuola, il comune disagio di alunni e insegnanti, non saranno stati annullati. La scuola in presenza garantiva davvero l’apprendimento come ricerca, scoperta, costruzione di competenze attraverso esperienze dotate di senso e cariche di significato? Non basterà riavvicinare i corpi all’interno di un’aula e di un edificio, con ritmi stabiliti, perché si ritrovino magicamente i valori pedagogici più alti su cui la scuola si dovrebbe fondare. Bisognerà tornare in classe guardando i banchi e le sedie rimasti vuoti non con nostalgia, ma con la voglia di immaginare e ricostruire attraverso la comunicazione circolare e il contatto umano e anche, perché no, attraverso una tecnologia diventata un po’ meno sconosciuta. “C'è chi insegna guidando gli altri come cavalli passo per passo: forse c'è chi si sente soddisfatto così guidato. C'è chi insegna lodando quanto trova di buono e divertendo: c'è pure chi si sente soddisfatto essendo incoraggiato. C'è pure chi educa, senza nascondere l'assurdo ch'è nel mondo, aperto ad ogni sviluppo ma cercando d'essere franco all'altro come a sé, sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato” (Danilo Dolci)
Descrivi la tua visione di educazione per il futuro: 
Da quest'altro testo che ho scritto credo traspaia la mia visione della scuola: LA SCUOLA SI METTE IN GIOCO Il 14 settembre le scuole hanno riaperto i cancelli dopo mesi di chiusura, la più lunga degli ultimi anni: non si è trattato del solito cancello principale, uguale per tutti gli studenti, ammassati a raccontarsi le vacanze e sorridenti, ma di tanti cancelli diversi, dove pochi ragazzi con il viso coperto dalla mascherina si sono trovati, un po’ impauriti, con l’indicazione precisa di stare a distanza l’uno dall’altro, spunto metaforico che da subito ha segnalato un approccio nuovo. Nonostante tutto, il fatidico primo giorno di scuola, da sempre coacervo di sensazioni diverse, anche quest’anno è parso carico di energia per studenti e docenti, desiderosi di rivedersi e di raccontarsi da un lato, timorosi e attenti a tutte le regole da rispettare dall’altro. È stato certo un primo giorno più esposto ai riflettori dopo le polemiche e le fatiche estive. Parlare di scuola in questo tempo così particolare è difficile e forse anche inutile. Più che discutere sarebbe meglio agire e vivere la scuola, cercando di gestire quanto sta accadendo e tutte le trasformazioni in atto come un’occasione per riattivarsi, riorganizzarsi, rimotivarsi e affrontare problematiche e criticità che già da tempo esistono e che la pandemia ha solo portato a galla e messo a nudo. Di certo non serve parlare qui di banchi con o senza rotelle, di metrature di aule, di distanze tra rime buccali, di gel nelle classi e nei corridoi, di salviettine monouso, di mascherine, prima obbligatorie solo in posizione statica e poi sempre, prima solo per alunni, poi anche per docenti, del divieto di scambiarsi materiali o di usare strumenti musicali o di svolgere attività in palestra. Pare inutile parlarne perché la stampa e i mezzi di comunicazione hanno fatto a sufficienza da cassa di risonanza, con sovrabbondanti notizie nei TG, articoli e interventi su giornali e siti web, dibattiti fitti di timori, apprensioni e auspici. Qualcuno è arrivato a paragonare la scuola a una caserma, forse con toni esagerati: la scuola resta un ambiente educativo e di responsabilità sociale, solo con una disciplina più regolamentata del solito. È evidente certo che da settembre il mondo della scuola non può replicare e riproporre modelli precedenti all’emergenza e che le linee guida e le continue indicazioni del Ministero hanno l’obiettivo di coniugare sicurezza e benessere sociale ed emotivo degli studenti con il diritto alla salute e all’istruzione, sul piano nazionale, ma con ricadute diverse all’interno delle peculiarità degli istituti scolastici del Paese. Le prescrizioni tecnico-sanitarie finalizzate alla prevenzione del contagio appaiono prioritarie e implicano l’adozione di soluzioni flessibili e l’introduzione di alcune rigidità nelle scuole: tutti ne parlano, tutti dicono la loro, spesso senza essere sul campo e capire cosa significhi per chi nella scuola lavora mettere in atto le misure quotidiane richieste e adempiere alle sollecitazioni normative in continuo mutamento, mandando contemporaneamente avanti le irrinunciabili attività della scuola, le programmazioni, il Piano Triennale dell’Offerta Formativa, i colloqui, le riunioni, le procedure inclusive, la didattica, pensando in grande e cercando, come viene richiesto, di favorire le innovazioni. In un anno già così incerto è stata addirittura introdotta una materia nuova per tutti gli ordini di scuola, l’educazione civica, pensata in tempi non sospetti e adesso così legata alla situazione emergenziale. In un anno già così incerto inoltre la scuola primaria si trova nel caos di eliminare i voti per tornare ai giudizi, con indicazioni ministeriali che arrivano ad anno scolastico già avviato da mesi. Proprio ora. Sentiamo parlare di didattica in presenza e di didattica a distanza come due modalità alternative di fare scuola. Gli istituti superiori quasi da subito hanno cominciato a lavorare da remoto, ma il 4 novembre mattina si respirava forte agitazione anche nelle scuole secondarie di primo grado, in un clima di attesa: ci vedremo ancora? domani che faremo? saremo zona rossa o arancione? verranno le classi prime o saremo a casa tutti? Nessuna notizia fino a sera. E poi la seconda e terza media dal 6 al 28 novembre si sono ritrovate a distanza, con una quasi totale riorganizzazione oraria e metodologica che richiede grande flessibilità e spirito di adattamento a docenti e studenti. Si parla molto, forse in toni un po’ ridondanti e trionfalistici, anche del valore del digitale e della positiva incidenza della tecnologia sugli apprendimenti e sull’inclusione: nessuno nega la loro importanza, ma qualcuno si domanda se si tratti di vera rivoluzione o di abbaglio. Il progresso informatico non va demonizzato; va però valutato con una visione critica e capace di cogliere le sue potenzialità e i suoi limiti, una via utile per tenersi in contatto e per affinare attenzioni e linguaggi, che può avere però implicazioni negative in un contesto come quello scolastico che vive di empatia relazionale. La scuola tuttavia non è solo questo. Dentro e fuori di essa c’è un sostrato umano da considerare ed è proprio l’umano che andrebbe esplorato. Il paradosso purtroppo è che spesso parlare di scuola equivale, in maniera quasi meccanica, a non parlare di bambini e adolescenti, come se essi non fossero ragione prima e causa ultima di ogni iniziativa e attività: si discute molto dei fatti della scuola, ci si preoccupa poco degli studenti. Calamandrei diceva: “Se lo Stato fosse un corpo, la scuola sarebbe l’organo ematopoietico”, dove si forma il sangue, un luogo partecipato e attivo, in cui bambini e ragazzi sono protagonisti. Forse è necessario rimettere in viaggio la mente, perché passi dal vuoto banco, con o senza rotelle, al suo occupante, dal termoscanner alla fronte che va a toccare, dalla distanza tra rime buccali alle bocche degli alunni, dalle mascherine fornite a tutte le scuole ai volti che ci stanno dietro, dai computer distribuiti con notevoli finanziamenti e impegno dallo Stato a coloro che ne fanno uso, dall’efficienza organizzativa all’efficacia pedagogica. Diceva don Milani: “Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande: I CARE. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Me ne importa, mi sta a cuore”. È appunto il senso della cura che caratterizza chi abita e vive le scuole. Gli studenti sono molto bravi e rispettosi in questa fase, quasi mai si lamentano di mascherine, distanziamento, intervallo in aula (nel giardino per i più fortunati), fila indiana, classi separate. Nei momenti di sfogo corrono, saltano, si rincorrono all’aperto; in aula scambiano chiacchiere e dialogano con gli amici. I ragazzi rispettano perché hanno capito ed è cresciuto il loro senso civico o perché hanno paura? Quel che si nota nell’ambiente scolastico è da parte loro il rispetto di se stessi e degli altri. Fuori dalla scuola poi li perdiamo di vista. Saranno così bravi? I genitori ce li raccontano felici di stare a scuola e annoiati in casa, tanto più che non possono incontrare nessuno e le loro attività pomeridiane sono quasi tutte ferme. Utilizzano moltissimo i social per mantenere vivi i contatti e le relazioni. Preferiscono comunque affrontare l’ansia di verifiche e interrogazioni piuttosto che essere soli dietro uno schermo. E anche per i docenti sentire sedie che fanno rumore, domande fuori luogo, vedere alunni distratti e richiamarli è meglio che essere dietro un monitor senza respiri e sguardi veri. L’incontro, l’ascolto, lo stare insieme, le relazioni fanno andare oltre tutte le fatiche e le preoccupazioni: si possono svolgere attività e laboratori molto belli e creativi, pur con tutte le restrizioni; si può pensare a una visione pedagogica che attivi competenze e collaborazione anche in un “fare” limitato all’essenziale. E quello che bambini e ragazzi creano segnala un mondo comunque di speranza e di colore, non buio e nero. Capita in alcuni casi che qualche alunno sia a casa in quarantena a causa di parenti “positivi” o che qualche classe sia in isolamento e incombe la possibilità di non rivedersi dall’oggi al domani. Tuttavia affrontare le difficoltà può diventare una grande palestra di cittadinanza attiva, una sfida che rientra nell’educazione civica e che non porta via la curiosità degli studenti. Adesso se si affronta la peste nera del Trecento o la peste nei Promessi Sposi non è più solo “una cosa da libro”, teorica, noiosa e lontana: si moltiplicano i confronti, interessanti domande, spunti di riflessione. Si aggiunga che è un anno in cui non ci si può toccare, in cui bisogna stare distanti. È un anno senza contatto fisico, senza strette di mano, abbracci o baci, privo di quei significativi gesti di comunicazione “gentile”, di empatia e di accoglienza, capaci di rendere significative le giornate. Lo si può allora trasformare in un anno “delle orecchie e degli occhi”: ci si ascolta e ci si guarda molto più di prima. Si osservano quadri e opere d’arte, si leggono racconti, si studiano Dante, Leopardi, Shakespeare, si ragiona su tabelle di dati, si imparano formule matematiche, chimiche e fisiche, si parla di Galileo: si parte da qui per capire cosa succede oggi, collegando i contenuti alla nostra vita, proprio attraverso lo sguardo e l’ascolto reciproco. Quando ciò accade, gli studenti si appassionano e scoprono la gioia della conoscenza, che può essere ricerca attiva, condivisione, scambio. Bisogna dar voce alle diverse opinioni di chi impara: è questa la radice più feconda della motivazione allo studio, che è sforzo e fatica, ma anche gioia della scoperta di connessioni inattese. La scuola dovrebbe sempre motivare ed entusiasmare, in questa fase storica in particolare. Ancora Calamandrei definiva la scuola “incubatrice di vocazioni”. L’incubatrice è una macchina costruita per far fronte alle difficoltà della natura e superarle: le scuole dovrebbero farsi proprio incubatrici, per fornire opportunità anche di fronte a limiti posti dalla natura ai singoli o alla società, per interpretare ed elaborare attraverso discipline e linguaggi quanto la vita impone. I ragazzi, trepidanti o fiduciosi che siano, stanno cercando di riaddattarsi alla scuola: hanno bisogno di linee semplici, chiare, coordinate, per non cadere nel disincanto e nella sfiducia. Sono necessarie una rimodulazione e una riappropriazione di consolidate e rassicuranti dimensioni non solo scolastiche, ma anche familiari e relazionali. La distanza ha ridotto forse la conflittualità, ma ha ostacolato la maturazione di abilità sociali e prosociali, modificando anche il linguaggio non verbale, la relazione, la cooperazione, la comprensione dell’altro. Alcuni studenti poi nascondono i sintomi di un malessere psicologico generato dall’esperienza del lockdown e del distanziamento sociale, un malessere che si deve gestire con prudenza e saggezza, per garantire la loro serenità futura in modo adeguato. Come può la scuola far fronte allo smarrimento di alcuni bambini e adolescenti che hanno perso i loro punti di riferimento? Come può aiutarli a gestire le emozioni che questa inusuale esperienza di emergenza sanitaria ha scatenato? Alcuni di loro hanno vissuto anche momenti difficili, di malattia o ricovero ospedaliero di familiari o addirittura di perdita di persone care, spesso anche di incertezza economica e di precarietà sociale. La scuola è responsabile di fornire ai ragazzi degli strumenti per interpretare con sensibilità il presente e interagire in modo consapevole con il contesto sociale. È innegabile il valore della conoscenza che si acquisisce a scuola, con l’esercizio dello studio, con la ricerca delle fonti, con l’attribuzione di significato al ruolo delle informazioni, ma è altrettanto innegabile in questo momento il valore del rispetto dei diritti propri e altrui, il valore delle scelte e delle decisioni, la forza di un patto educativo, il sostegno di fronte alle difficoltà e il ruolo di bussola che la scuola è tenuta a svolgere per favorire partecipazione, maturazione, motivazione, esperienza di dialogo e ricerca, esercizio di responsabilità, servizio e cooperazione. Se è vero inoltre che la scuola è un luogo di creazione culturale e non di pura trasmissione di conoscenze, in questo momento la cultura, che passa certo attraverso dei contenuti, riguarda anche l’attenzione e la cura. Bisogna capire e cambiare, partendo proprio dalla costruzione di una cultura della cura, che è cura delle relazioni reciproche anzitutto. La scuola deve saper cambiare per aderire in modo pertinente al contesto e portare avanti il proprio mandato educativo. In tutto questo è centrale il ruolo del docente, per niente facile. Nei mesi di pandemia si è preoccupato di restare presente nelle vite dei ragazzi, è entrato nei tempi e negli spazi delle famiglie, ha prestato attenzione alle singole storie degli allievi, ha chiesto e trovato quasi sempre alleanze con i genitori, ha creato reti riflessive e di supporto e ha cercato di mantenere aperta la comunicazione. Ora deve continuare a proporre un approccio alla realtà che vada oltre il semplice studio, costruire e alimentare il dialogo con i propri alunni, dimostrarsi empatico e paziente e svolgere il proprio lavoro con entusiasmo, non dimenticando il significato del termine insegnare e il suo valore etimologico, dal latino insignare, “segnare” la mente dello studente. Il docente deve essere come un libro aperto, sempre pronto a nuove avventure e a scenari inaspettati: dare sempre il meglio di sé aiuta a diventare un punto di riferimento per gli studenti che in questo modo possono respirare valori universali. Deve sostenere le potenzialità umane, al di là dei mezzi a disposizione, attivando le competenze dei discenti in un processo davvero educativo (e-ducere), essere un coltivatore di grandi sogni, perché i bambini e i ragazzi hanno il diritto di continuare a sognare e tendono a rispecchiarsi nell’immagine della persona che cammina al loro fianco. Deve costruire la coesione del gruppo classe e aiutare tutti gli studenti a partecipare attivamente alla vita scolastica, evitando tensioni e stimolando il percorso di crescita di ognuno. Gli insegnanti “devono declinare le loro competenze disciplinari e didattiche, non farne il loro rifugio, e devono mostrare, facendolo, la loro cura del futuro di altri, cui parteciperanno solo per un tratto, la promessa che serbano, anche nei “patrimoni” che consegnano, per chi cresce e si avvia” (Ivo Lizzola). Insomma la scuola, di fronte alla paura e all’emergenza, dovrebbe rappresentare una sorta di simbolico presidio civile, capace di mantenere viva, in presenza o a distanza, la funzione educativa di cui è per sua natura caricata, supportando e orientando tramite l’attività di insegnamento i propri allievi, con umiltà, senza presunzione e rigidità, pronta a mettersi in gioco, in un’alleanza solidale e trasparente con la società e con le famiglie.