Descrizione di come è stata affrontata l’emergenza da COVID-19 con i propri studenti::
Riporto qui alcuni miei articoli scritti durante l'emergenza COVID:
1. RARAE AVES
Esperienza di scuola e teatro a distanza
Ho cominciato a pensare di dover raccontare a qualcuno un’esperienza straordinariamente bella vissuta come docente in questi mesi di pandemia dopo che un collega mi ha definita “rara avis” mentre gliene parlavo al telefono.
Quasi tutti (o forse tutti) i laboratori teatrali previsti nelle scuole per quest’anno scolastico sono stati annullati o, nella migliore delle ipotesi, rinviati a data da destinarsi, con grande rammarico degli studenti, di alcuni docenti e degli operatori teatrali. Noi abbiamo provato a portarlo avanti.
“Noi” siamo io, una docente di lettere presso la scuola secondaria di primo grado di Grumello del Monte, e Damiano Grasselli, direttore artistico e attore di Teatro Caverna, un piccolo teatro nel quartiere di Grumello del Piano a Bergamo, che, rispondendo a un alunno in merito all’importanza del teatro, ha scritto: “Il teatro nasce da una ricerca umana. E rimane speciale per l’uomo perché è una misteriosa indagine delle grandi domande che ciascuno di noi si fa”. Damiano lavora con noi a scuola da quattro anni, proponendo laboratori ai ragazzi di prima e di seconda, con l’idea che ogni progetto debba partire dall’incontro e dalla relazione e che la finalità non sia quella di realizzare uno spettacolo di grandi attori, ma quella di stare insieme divertendoci, ascoltandoci e imparando a gestire il nostro corpo e la nostra mente nella relazione con l’altro.
È un’idea che si sposa perfettamente con il mio modo di vedere la scuola come ambiente di vita, in cui si cresce e si apprende insieme e in cui il teatro può fare tanto.
Il docente è colui che insegna ed educa, che lascia un segno (in + signare) e che conduce fuori (ex + duco). Lascia un segno, di qualunque natura esso sia, positivo o negativo, comunque determinante per la crescita dei suoi studenti: tutti ricordiamo i segni che i nostri insegnanti ci hanno lasciato; li benediciamo o li malediciamo a seconda che essi siano sentieri ben tracciati da seguire o ferite profonde. Il docente lascia il segno non certo introducendo conoscenze come in un imbuto, per riempire un vaso vuoto, pensiero del retore latino Quintiliano, ma piuttosto cercando di tirare fuori quanto il discente ha già dentro di sé, educando appunto, alla maniera socratica e platonica.
In questo momento particolare, come docente, ho ritenuto giusto non mettere in primo piano la didattica in senso stretto, intesa come insieme di conoscenze e contenuti, che pure c’è stata, ma il benessere degli studenti, bambini, ragazzi e adolescenti, che si sono trovati chiusi in casa con i fratelli e i genitori, quelli che abitualmente sono “i loro nemici”, quelli con cui si sfogano e contro cui hanno sempre da ridire, lontani dagli amici e da figure di riferimento con cui confidarsi e in cui cercare conforto.
Ho cercato (non so se sono riuscita) di dar loro un ritmo, di aiutarli a capire che il tempo ha un senso e che vale la pena di vivere la vita in qualsiasi modo essa si presenti. E allora più che pensare a interrogazioni e verifiche e programmi e voti e note e arrabbiature per le mancanze e i ritardi, mi sono educata a vedere il buono che i ragazzi mi hanno dato, a stare nella relazione con loro, a creare un percorso di crescita con loro, che favorisse la maturazione e di conseguenza l’apprendimento. Certa che la scuola non sia una macchina nozionistica basata su aridi criteri valutativi, ho provato a incanalare moduli e burocrazia (che ci sono e vengono richiesti), lezioni e compiti in un’ottica di buonsenso e di umanità, che facesse sentire gli alunni esseri umani degni di rispetto e degni di essere ascoltati. Il teatro mi ha aiutato a trasformare il sapere in un bagaglio personale piuttosto che in un’inutile somma di informazioni e nozioni che poi si scordano.
Noi dunque, io e Damiano, abbiamo accettato la sfida di una Dirigente illuminata, la dottoressa Nicoletta Bassi dell’IC di Grumello del Monte, che ha pensato che il teatro potesse far parte della didattica a distanza (espressione ossimorica che detesto) ed essere un modo per tenere uniti gli alunni e che ha scelto di non interrompere un percorso già avviato e (perché no?) di dare una mano a professionisti in questo momento forzatamente fermi e poco visti o non visti dal sistema, a volte in difficoltà economica.
È bastata un po' di creatività, unita alla voglia di metterci in gioco e di pensare al nostro mestiere in modo diverso: abbiamo provato a svolgere il nostro lavoro reinventandolo, forse un po' dimenticando il nostro ruolo e facendo procedere in sintonia, anche se da lontano, le nostre idee e le nostre passioni. Ingrediente fondamentale è stato poi l’entusiasmo dei ragazzi: il loro coinvolgimento, la loro partecipazione, la loro voglia di fare scuola divertendosi e insieme imparando (hanno spesso usato i due verbi insieme) sono stati i motori più importanti per mandare avanti il progetto.
Come può la didattica, oltretutto in remoto, legarsi al teatro? Didattica e teatro non sono mondi chiusi. Non dobbiamo vederli come tali: sarebbe la loro morte. La voce, la lettura, la storia, la letteratura, i sensi, i suoni hanno fatto da collante. È mancata la presenza. Teatro e scuola sono anzitutto presenza, incontro, relazione, sguardi, corpi, mani, movimento, odori. Questo è mancato. Ma non ci siamo fermati, neanche di fronte ad alcune affermazioni come: "È impossibile fare un laboratorio di teatro a distanza. E poi ... il programma?".
Impossibile fare teatro a distanza: questo è evidente. Nel teatro è centrale la relazione tra attore e pubblico: “il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza uno spazio scenico separato, senza gli effetti di luce e suono ... ma non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta”, dice Jerzy Grotowski. Ma un laboratorio teatrale non è teatro: può essere un laboratorio sul teatro o che del teatro ha alcune caratteristiche; la sua finalità non è quella di arrivare a uno spettacolo con un pubblico, a una messa in scena, ma quella di stare insieme, di divertirsi insieme, di crescere insieme, di percorrere insieme un pezzo di vita, di condividere qualcosa. E qui siamo arrivati.
Gli alunni sono stati insieme, hanno lavorato su di sé, hanno imparato ad ascoltare la voce dell'attore e dei compagni, hanno provato emozioni, si sono divertiti, hanno giocato con il mondo greco o con quello medievale o con Tasso, Shakespeare, Cervantes, Goldoni e con i suoni e i sensi. Abbiamo creato insieme bellissimi lavori, condivisi anche con le famiglie, cosa rarissima a scuola. L'attore ha scelto testi che ama, ha letto cose bellissime, si è divertito a fare un po' di giochi con la voce, ha riflettuto sul suono, ha ascoltato pazientemente le richieste dei ragazzi e della profe, talvolta si è commosso rispondendo alle loro domande. L'insegnante a sua volta ha esercitato l'arte dell'ascolto, ha provato emozioni forti, ha tradotto in attività parole, suoni e video, si è divertita con i ragazzi, ha sperimentato modalità di lavoro nuove, decisamente arricchenti per la sua professione. Tutto questo è accaduto attraverso una piattaforma, filtrato da uno schermo. Ma è accaduto.
“E il programma?” Il programma è stato svolto tutto e in un modo, credo, che i ragazzi ricorderanno più di come lo avrebbero ricordato se avessero partecipato a lezioni frontali (che comunque non sono l’unico modo di procedere a scuola, per fortuna), seguite da interrogazioni e da verifiche conclusive. Il nostro laboratorio non ha una fine: potrebbe andare avanti all’infinito, perché è luogo di competenze di vita.
Damiano ha salutato i ragazzi di prima C, che hanno lavorato sul teatro greco e su alcune audioletture descrittive in poesia e in prosa, così: “Ciao a tutti, ragazzi. Vi ringrazio per le tante e belle parole che mi avete dedicato: mi sono commosso. Per me è stato divertente pensare con voi il teatro in questa forma “particolare” e sono contento che vi abbia fatto sorridere. Credo che il nostro sia proprio stato un agone: ci siamo sentiti parte di un momento speciale per la nostra piccola classe/comunità, esattamente come i Greci. Abbiamo dialogato. Abbiamo imparato e domandato. E questo lo abbiamo fatto insieme: questo è il teatro, io e te insieme! La distanza e la tecnologia non ci hanno “favorito”; sarebbe stato meglio vedersi, darsi una pacca sulle spalle, sentirsi ridere, sbaciucchiarsi… non è stato possibile, ma queste cose non dimenticatele mai, perché sono la fonte del vostro modo di essere e vivere”.
Ai ragazzi di seconda C, che hanno lavorato sul teatro medievale e su alcune audioletture letterarie (Gerusalemme Liberata, monologhi di Shakespeare, Cervantes, Locandiera di Goldoni) ha invece dedicato queste parole: “Cari ragazzi, ogni volta che leggo i vostri testi sono contento e sorrido di allegria, perché penso diciate e scriviate cose molto belle e profonde e degne di essere lette. È un momento di pace quando arrivano i vostri scritti. Grazie. Le parole che usate per descrivere il teatro, per riflettere sul monologo di essere o non essere, per parlare della vita e del teatro che gioca con la vita reale… sono parole che molte persone della mia età hanno dimenticato: delicatezza, serietà, impegno, coordinazione, parola, silenzio… non dimenticatele mai, voi che avete una così importante missione nella vita: fare sì che queste cose proseguano ed abbiano un valore importante, sempre!”.
Io stessa, rivolgendomi ai ragazzi di prima ho scritto: “Mi ha colpito l’idea geniale di Damiano di organizzare un agone teatrale e ancor più mi ha colpito il modo in cui lo ha pensato. Mi ha sorpreso il fatto che a vincere il nostro agone sia stata una tragedia, l’“Antigone” di Sofocle. Mi aspettavo vincessero le “Rane”, una commedia. Forse questo periodo “speciale” che stiamo vivendo vi ha portato a riflettere sulla vita e sulla morte, esattamente come fanno le tragedie greche: molti di voi hanno sottolineato proprio il tema della morte come motivo della scelta. Altri hanno invece espresso il loro voto per la modalità espositiva dell’attore, che ha raccontato le due tragedie come fossero commedie e vi ha divertito. Questo mi fa pensare che abbiate voglia di tornare a ridere e a divertirvi. Ed è giusto. Il teatro è entrambe queste cose: riflessione e divertimento. La vita è entrambe queste cose: riflessione e divertimento. In questo percorso dunque avete conosciuto un po’ il teatro e avete messo in gioco un po’ la vostra vita: questo è molto bello, perché a scuola si impara a giocare la vita”.
E agli alunni di seconda: “Il lavoro sul teatro ha coinvolto molto anche me, perché è una delle mie passioni. Rivisitarlo in modo diverso, con voi, è stato stimolante. Vi ringrazio per esservi messi in gioco nelle risposte che avete dato e per aver accettato la sfida di un laboratorio sul teatro a distanza, senza corpi, senza voci, senza sguardi. Avete saputo comunque ascoltare e percepire, vi siete aperti e vi siete lasciati conoscere”.
Alcune testimonianze tra le tante dicono anche il punto di vista degli studenti.
“Questo percorso di teatro mi ha fatto divertire tantissimo con cose nuove che abbiamo scoperto pian piano durante ogni puntata e mi dispiace che sia finito, ma l’importante di ogni cosa che finisce è ricavare qualcosa di bello, che non si scorderà mai, perché queste cose le fai una volta nella vita e io in questo percorso ho ricavato che il teatro è molto bello. All’inizio del percorso pensavo che dovessi solo recitare: in realtà puoi esprimerti, liberarti da qualcosa e divertirti un sacco”.
“Non mi aspettavo questo modo di fare teatro: mi ha incuriosito molto e mi ha fatto imparare molte cose che magari mi serviranno in futuro. Mi è sembrata un’esperienza bella e giusta per i ragazzi della nostra età, anche perché Damiano e la profe hanno reso tutto divertente e ci hanno incoraggiato a farci esprimere i nostri pensieri. Ci hanno dedicato il loro tempo e non si sono fermati, nonostante la distanza”.
“In questo periodo particolare in cui siamo stati a casa il teatro ci ha aiutato a evadere e a svagarci e ci ha fatti stare insieme”.
La didattica a distanza dunque, se vissuta come temporanea educazione alla distanza, non è da demonizzare del tutto: ci sono state esperienze significative che alcuni docenti e alunni hanno vissuto e racconteranno, esperienze di scuola e di vita. Chi aveva costruito con i docenti relazioni di rispetto e di dialogo e vissuto con i compagni esperienze culturali e umane di un certo valore è riuscito a stare sulle piattaforme con più facilità, senza dispetti, noia e sospetti, con desideri ancora accesi e interessati. La scuola è stata comunque un luogo di riconoscimento, di identità, soprattutto in assenza di altre attività e luoghi di ritrovo.
Certo bisogna evitare l’errore di esagerare e sopravvalutare la portata di tutto questo. La scuola resta luogo di incontro e di alchimie emotive che a distanza si perdono.
2. Didattica a distanza o educazione alla distanza?
Dal mese di marzo la scuola è stata chiamata a vivere una situazione inedita, del tutto inattesa, imprevista e imprevedibile. La routine quotidiana, così ben segnata e ritmata dal suono della campanella allo scadere di ogni ora di lezione, si è improvvisamente interrotta.
In una fase dell’anno che aveva il sapore della pausa (fine quadrimestre e Carnevale) gli studenti si sono trovati a casa, liberi e felici i primi giorni per l’insperata vacanza, con il panico dei genitori; annoiati e stanchi subito dopo, con il forte dichiarato desiderio di tornare sui banchi, che stupiva loro stessi. Diversamente da quel che capita nelle emergenze come terremoti o alluvioni, in cui da sfollati ci si trova tutti uguali dentro una tenda, nella reclusione domestica di questi mesi di pandemia le famiglie si sono trovate isolate, con dotazioni tecnologiche, spazi, risorse, competenze e tempi da dedicare alla scuola differenti, ciascuna nel proprio status: la scuola ha contribuito suo malgrado a sottolineare le differenze di classe, facendo perdere i contatti ai più fragili.
I docenti sono stati prima invitati e poi obbligati alla “didattica a distanza”, subito sintetizzata con l’acronimo DaD, per non smentire la moda delle infinite sigle che negli ultimi anni caratterizzano il linguaggio scolastico o scolastichese, quasi incomprensibile per chi non è del mestiere. Didattica a distanza è un ossimoro stridente per chi crede che la scuola sia luogo di vicinanza, di incontro, di integrazione e di relazioni personali, fatto di presenza, sguardi, suoni e rumori, profumi e odori.
Gli insegnanti si sono da subito dati da fare, aggiornandosi con le più moderne tecnologie, tante volte biasimate e vituperate durante le loro lezioni. L’uso di strumenti tecnologici nella didattica, spesso invocato e reclamato da più parti, è diventato realtà, con una corsa all’aggiornamento da parte di tutti, anche di quelli più restii per età anagrafica. Moltissimi insegnanti per la prima volta hanno sperimentato videoconferenze, aule virtuali e le mille risorse delle piattaforme digitali, si sono rimboccati le maniche in modo più o meno ingegnoso e creativo, hanno studiato e chiesto consigli. Piattaforme, social, tablet, computer sono diventati una quotidianità quasi ossessiva. Le scuole sono state più “fortunate” degli ospedali, perché è stato abbastanza facile trovare i dispositivi utili per una didattica alternativa, grazie anche agli immediati finanziamenti ricevuti dal Governo, discutibili se poi si pensa che alcune famiglie, non avvezze all’utilizzo di strumenti tecnologici, si sono ritrovate in casa un tablet o un pc, senza le competenze per utilizzarli, ma avendo magari il problema contingente di fare la spesa e sfamare tutti, a causa della perdita del lavoro. Ma questo è un altro discorso. Quasi tutte le scuole e quasi tutti i docenti ce l’hanno fatta: tranne poche eccezioni, ognuno continua a fare la sua parte, con coscienza deontologica e senso del dovere.
Il nodo vero però non sta qui. Superato il problema tecnico, la questione seria da affrontare con ragionevolezza è stata quella dell’assenza della scuola reale e del senso di questa attuale “scuola”.
Si tratta di scuola anzitutto? Si può parlare di classe senza un luogo di vita e di lavoro comune? Per bambini, ragazzi e adolescenti i mesi sono pieni di eventi, esperienze, cambiamenti; altre abitudini hanno preso il posto della scuola. Il lavoro a cui sono chiamati i docenti e gli studenti è molto diverso da quello abituale. È una sfida per tutti e come tale va affrontata. È inutile arroccarsi su posizioni troppo conservatrici e fingere che questa realtà non ci sia. È inutile far finta che sia tutto normale (posto che la normalità esista), come prima, e pretendere di far passare i contenuti disciplinari allo stesso modo e di raggiungere i medesimi obiettivi. Va tutto rivisitato e ripensato. Lo sforzo e la fatica richiesti sono ingenti, soprattutto perché è necessario mettersi in discussione come professionisti e come uomini, cosa assai difficile. Non si tratta solo di trovare modalità nuove di approccio con i ragazzi, tecniche innovative di insegnamento e condivisione, di invio e ricezione di compiti; si tratta di interrogarsi sulla propria professione e sul proprio ruolo. Del resto ce n’era bisogno, visto che oggi i docenti sono scambiati per tuttologi: insegnanti, educatori, terapeuti, psicologi ...
Il docente insegna ed educa. Partiamo da qui. INSEGNARE (in + signare) significa lasciare un segno. EDUCARE (ex + duco) significa condurre fuori. Il docente lascia un segno nell’animo dei suoi studenti, di qualunque natura esso sia, un segno positivo o negativo, un segno comunque determinante per la crescita di una persona. Quante volte nella vita ricordiamo i segni che i nostri insegnanti ci hanno lasciato! Li malediciamo o li benediciamo a seconda che essi siano ferite o siano sentieri ben tracciati da seguire. Il docente lascia il segno non certo versando conoscenze come in un imbuto per riempire un vaso vuoto, idea questa che aveva il retore Quintiliano, ma piuttosto cercando di condurre fuori quanto il discente ha già dentro di sé e aspetta di essere attivato, educando appunto, alla maniera socratica e platonica.
E allora in questa fase particolare la didattica in senso stretto, intesa come insieme di conoscenze e contenuti, che pure c’è per forza legislativa, non è in primo piano (posto che in presenza lo sia e lo debba essere). Prioritario è il benessere degli studenti, della generazione dei bambini, dei ragazzi e degli adolescenti che si trovano chiusi in casa con fratelli e genitori, quelli che abitualmente sono “i loro nemici”, quelli con cui si sfogano e contro cui hanno sempre da ridire. Sono lontani dagli amici e da figure di riferimento con cui confidarsi e in cui cercare conforto.
Il docente, con tutti i suoi limiti, ha il compito di dar loro un ritmo, di aiutarli a capire che il tempo ha un senso, che la vita in questo momento è così e vale la pena comunque che sia vissuta, di aiutarli a capire se stessi. E allora, forse, più che pensare a interrogazioni e verifiche e programmi e voti e note e arrabbiature per le mancanze e i ritardi, il docente deve educarsi a vedere il buono che i ragazzi danno, a stare nella relazione con loro, a creare un percorso di crescita con loro, che favorisca la maturazione e di conseguenza l’apprendimento. La scuola non è una macchina nozionistica basata su aridi criteri valutativi. Moduli e burocrazia (che ci sono e vengono richiesti), lezioni e compiti vanno incanalati in un’ottica di buonsenso e di umanità, che faccia sentire gli alunni esseri umani degni di rispetto e degni di essere ascoltati. Quel che conta maggiormente è la partecipazione degli alunni, il fatto che ci siano, che accettino la relazione, che riflettano e provino emozioni, dimostrando impegno e responsabilità, che sono, molto più di prima, affidati a loro.
Una testimonianza fra le tante
Un attore e una docente hanno provato a fare teatro con i ragazzi, accettando la sfida di una Dirigente illuminata, che ha pensato che il teatro, attività già avviata e che sarebbe rimasta sospesa, potesse essere un modo per tenere uniti gli alunni e che ha scelto (perché no?) di dare una mano a professionisti in questo momento forzatamente fermi e poco visti o non visti dal sistema, a volte in difficoltà economica. È bastata un po' di creatività, unita alla voglia di mettersi in gioco e di pensare al proprio mestiere in modo diverso, da parte di due persone, una docente e un attore appunto, che hanno provato a svolgere il loro lavoro reinventandolo, forse un po' dimenticando il loro ruolo e facendo procedere in sintonia, anche se da lontano, le loro idee e le loro passioni. Ingrediente fondamentale è stato poi l’entusiasmo dei ragazzi: il loro coinvolgimento, la loro condivisione, la loro voglia di fare scuola divertendosi e insieme imparando (hanno spesso usato i due verbi insieme) sono stati i motori più importanti per mandare avanti il progetto. Impossibile fare teatro a distanza: questo è evidente. Nel teatro, come nella scuola, è centrale la relazione tra attore e pubblico: “il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza uno spazio scenico separato, senza gli effetti di luce e suono ... ma non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta”. (Jerzy Grotowski) Ma un laboratorio teatrale non è teatro: può essere un laboratorio sul teatro o che del teatro ha alcune caratteristiche; la sua finalità non è quella di arrivare a uno spettacolo con un pubblico, a una messa in scena, ma quella di stare insieme, di divertirsi insieme, di crescere insieme, di percorrere insieme un pezzo di vita, di condividere qualcosa. L’attore ha concluso il lavoro scrivendo ai ragazzi: “Credo che il nostro sia proprio stato un agone: ci siamo sentiti parte di un momento speciale per la nostra piccola classe/comunità, esattamente come i Greci. Abbiamo dialogato. Abbiamo imparato e domandato. E questo lo abbiamo fatto insieme: questo è il teatro, io e te insieme! La distanza e la tecnologia non ci hanno “favorito”; sarebbe stato meglio vedersi, darsi una pacca sulle spalle, sentirsi ridere, sbaciucchiarsi… non è stato possibile, ma queste cose non dimenticatele mai, perché sono la fonte del vostro modo di essere e vivere”. E la docente ai ragazzi ha scritto: “Mi ha sorpreso il fatto che a vincere il nostro agone sia stata una tragedia, l’Antigone di Sofocle. Mi aspettavo vincessero le Rane, una commedia. Forse questo periodo “speciale” che stiamo vivendo vi ha portato a riflettere sulla vita e sulla morte, esattamente come fanno le tragedie greche: molti di voi hanno sottolineato proprio il tema della morte come motivo della scelta. Altri hanno invece espresso il loro voto per la modalità espositiva dell’attore, che ha raccontato le due tragedie come fossero commedie e vi ha divertito. Questo mi fa pensare che abbiate voglia di tornare a ridere e a divertirvi. Ed è giusto. Il teatro è entrambe queste cose: riflessione e divertimento. La vita è entrambe queste cose: riflessione e divertimento. In questo percorso dunque avete conosciuto un po’ il teatro e avete messo in gioco un po’ la vostra vita: questo è molto bello, perché a scuola si impara a giocare la vita”.
Come dimostrano numerose testimonianze, una per tutte riportata in queste pagine, la didattica a distanza, se vissuta come temporanea educazione alla distanza, non è da demonizzare: ci sono state esperienze significative che alcuni docenti e alunni hanno vissuto e racconteranno, esperienze di scuola e di vita. Chi aveva costruito con i docenti relazioni di rispetto e di dialogo e vissuto con i compagni esperienze culturali e umane di un certo valore riesce a stare sulle piattaforme con più facilità, a condividere anche attraverso gli schermi, senza dispetti, noia e sospetti, con desideri ancora accesi e interessati. La scuola è comunque un luogo di riconoscimento, di identità, soprattutto adesso che c’è solo la casa e non ci sono altre attività e luoghi di ritrovo. Ma sarebbe un errore esagerare e sopravvalutare la portata di tutto questo. Qualcuno si chiede già se questa possa essere una condizione valida ad oltranza, una reale, autentica accelerazione verso un nuovo tipo di scuola. Qualcuno è convinto che una scuola che cambia, che sta al passo con i tempi, che ottimizza le nuove tecnologie, impiegandole senza abusi, non sia poi così male. Il rischio che questa diventi la scuola del futuro è realistico e palpabile.
Ma la scuola non deve e non può diventare questo. Gli strumenti usati si rivelano utili per fare fronte a situazioni emergenziali come l’attuale, ma si tratta appunto di condizioni straordinarie perché trascendono l’ordinario. La scuola, quando possibile e in sicurezza, dovrà ricostruire rapporti interrotti e rendere ancora l’aula un luogo affettivamente e culturalmente accogliente. Il contatto diretto tra docente e studente è insostituibile, perché si insegna anche con l’esempio, con la testimonianza di vita, con la coerenza, aspetti che per natura non possono essere rimpiazzati da qualsivoglia ‘soluzione tecnica’. Cosa è un’esperienza educativa e di apprendimento culturale senza gli scambi e i corpi? Ogni forma di conoscenza ha bisogno di desiderio vivo, di carne, di parola autentica per esistere.
Quel che si sta vivendo non è la nuova frontiera della pedagogia, come da certi umori si percepisce, ma un contributo di riflessione per la futura nuova scuola nelle vecchie amate/odiate aule, dove si tornerà, forse, con più profondità e più dolcezza, nella consapevolezza che i preesistenti mali della scuola, il comune disagio di alunni e insegnanti, non saranno stati annullati. La scuola in presenza garantiva davvero l’apprendimento come ricerca, scoperta, costruzione di competenze attraverso esperienze dotate di senso e cariche di significato? Non basterà riavvicinare i corpi all’interno di un’aula e di un edificio, con ritmi stabiliti, perché si ritrovino magicamente i valori pedagogici più alti su cui la scuola si dovrebbe fondare. Bisognerà tornare in classe guardando i banchi e le sedie rimasti vuoti non con nostalgia, ma con la voglia di immaginare e ricostruire attraverso la comunicazione circolare e il contatto umano e anche, perché no, attraverso una tecnologia diventata un po’ meno sconosciuta.
“C'è chi insegna guidando gli altri come cavalli passo per passo: forse c'è chi si sente soddisfatto così guidato. C'è chi insegna lodando quanto trova di buono e divertendo: c'è pure chi si sente soddisfatto essendo incoraggiato. C'è pure chi educa, senza nascondere l'assurdo ch'è nel mondo, aperto ad ogni sviluppo ma cercando d'essere franco all'altro come a sé, sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato” (Danilo Dolci)