Una donna entra in una classe. Si trova in una secondaria di primo grado, alle medie per intenderci. Probabilmente è una seconda. E’ una tiepida mattina d’inverno. Accosta le tende per poter rendere ottimale la visione di un filmato alla LIM. C’è uno spicchio timido di sole che buca perpendicolare lo schermo e favorisce un croccante chiacchiericcio di mezza mattinata. La donna non se ne cura e provvede a premere play. Un treno arriva alla stazione. La classe si ammutolisce. I ragazzi sgranano gli occhi. Uomini e donne vestiti come in una serie TV in costume. O forse no. Siamo davvero nel passato. Siamo di fronte ad una nascita, quella del cinema. E forse anche un poco alla nostra.
Sitografia-Bibliografia per le fonti citate:
Tonino De Pace, Diario Di un maestro di V.De Seta , taxidriver 28/04/2018
Film per la tv. “Diario di un maestro” di Vittorio De Seta. Appunti del servizio stampa n. 52, Rai Radiotelevisione Italiana, 1972
QUANDO I MAESTRI S'INCONTRANO di Carlo Ridolfi (da NOTE MAZZIANE n. 4 ottobre-dicembre 2012)
” L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat”
(L. Lumière, L'arrivée d'un train en gare à La Ciotat, Francia 1896)
Interpreti: famiglia Lumière e altri passeggeri anonimi
Un binario ferroviario inizialmente vuoto viene percorso da un treno in arrivo. Alcuni viaggiatori sono in attesa sulle pensiline, altri scendono dal convoglio che si è appena fermato.
Ci troviamo di fronte alla visione del più emblematico cinema delle origini e anche del più celebre tra i film dei fratelli Lumière. Le cronache del tempo narrano di come, durante le prime proiezioni, la visione di questa pellicola scatenasse nel pubblico presente in sala una reazione di vero terrore, la paura di essere travolti dalla locomotiva che sullo schermo si muoveva proprio nella direzione di chi era seduto come spettatore. Anche i ragazzi sgranano gli occhi. Loro al cinema ci sono già stati e su un treno forse ci sono saliti. Eppure avviene un’alchimia. Anche se lo vedessero- come dei novelli ciclopi- sullo schermo dei loro smartphone. Ogni volta, da secoli, avviene la magia che solo il cinema sa innescare. Non ci sono effetti speciali, non ci sono supereroi, nessuna esplosione, nessuna apocalisse. Una scena semplicissima del quotidiano. Lo stupor mundi. È il testo filmico che in maniera più icastica dimostra quell'impressione di realtà alla base del fascino esercitato dal cinema, ma anche quel grado zero dell'immagine rappresentato dalla frontalità e dall'immobilità che caratterizzano l'inquadratura.
Nel 1973, con la produzione della RAI dell’epoca, Vittorio De Seta avrebbe realizzato Diario di un maestro tratto dal libro di Albino Bernardini, Un anno a Pietralata. Trasmesso in quattro puntate, nel 1973 su quello che all’epoca era il Programma Nazionale (oggi Rai1), il che era già una conquista e un rischio, racconta i pochi mesi del maestro Bruno D’Angelo in una scuola dell’estrema periferia romana, tra abbandono scolastico e povertà, tra disinteresse per l’apprendimento e la voluta distrazione familiare che impone la regola del lavoro (minorile), piuttosto che quella dello studio. Il maestro D’Angelo, al suo primo incarico, lotta contro tutto questo, ma anche con la rigida disciplina didattica fatta di un inutile nozionismo che poco si raccorda con le esigenze dei ragazzi, con le loro vite difficili. Il maestro opera nel senso inverso e la sua didattica prova a dare risposte alle domande dei giovani allievi, prova a fare toccare con le loro stesse mani, la storia e la matematica, la geografia e l’attualità. Il suo è un metodo induttivo con il quale prova a fare risaltare la necessità dell’insegnamento e soprattutto quella dell’apprendimento quali elementi essenziali della vita quotidiana di ciascuno. Ma soprattutto il maestro prova, con cautela, ad entrare nelle vite di ciascuno di loro, sperimentando i rapporti e riconoscendone i bisogni, le debolezze, attraverso le discrete relazioni che riesce ad instaurare con le famiglie vittime, anch’esse, di un colpevole abbandono e di una altrettanto odiosa ghettizzazione. Diario di un maestro diventa il frutto di una convergenza di fenomeni, di una ricchezza messa a dimora vari anni prima e il film si muove in quell’area che da Pasolini al cinema di Olmi, alla documentaristica civile e a certo lavoro di Comencini, quasi fino a Silvano Agosti, ha segnato lo sguardo sociale che ha arricchito il nostro patrimonio cinematografico. È anche vero che la grandezza autoriale che De Seta ha saputo dimostrare è quella di avere metabolizzato queste tracce, facendole proprie per la nascita di un prodotto originale che pur con i tratti di questi illustri precedenti, diventa un’altra cosa che ci assomiglia, ma non ne costituisce né la copia, né l’epigono risultato di quelle elaborazioni. In altre parole, oggi ci stupiamo di quel cinema che riflette lucidamente sulla scuola, sui suoi disagi alle prese con le integrazioni culturali ed etniche, ma forse non sappiamo di avere un patrimonio dimenticato al quale attingere che molti anni fa ci ha raccontato altrettanto lucidamente quei disagi e suggerito un metodo, inventando un percorso nuovo.
Il regista decide di trarne un film, si documenta (legge Freinet, don Milani, Mario Lodi), incontra maestri e insegnanti (Lina Ciuffini, Alberto Alberti, Maria Luisa Bigiaretti, Alberto Manzi, don Roberto Sardelli). Scrive De Seta: «La scuola nuova, “attiva”, “creativa”, si propone soprattutto di liberare, esprimere la personalità del fanciullo, si ispira alla vita e non ai libri, agli spunti offerti dalla cronaca, dall’ambiente e non alla vecchia scuola nozionistica fatta di nomi, di date da imparare a memoria. La scuola nuova abolisce il vecchio rapporto autoritario tra maestro e alunni e trasforma il maestro in un collaboratore, in un coordinatore e nient’altro. Come si potrebbe realizzare tutto questo, in modo convincente, mettendo nelle mani dei ragazzi un copione da imparare a memoria? (…) Sarebbe assurdo, contraddittorio, pazzesco. Per questo metto da parte il libro di Bernardini. La sua è stata un’esperienza vissuta. Il mio film dev’esserlo altrettanto. Sento che l’unico modo per realizzarlo è “vivere”, filmare dal vero, un’autentica esperienza pedagogica» . E’ così che De Seta arriva a collaborare con Francesco Tonucci, psicologo e pedagogista del CNR, che gli farà da consulente per la sceneggiatura. Attraverso Tonucci incontra Mario Lodi, al quale chiederà persino di interpretare la parte del protagonista. (Qualche anno prima, su Vie nuove, in un articolo intervista a Mario il giornalista aveva scritto «Che faccia da attore ha questo maestro!»). Mario non accetterà – Piadena ha perso la possibilità di avere un divo nel cinema, ma si è garantita la prosecuzione del lavoro di un grande maestro.
Quel maestro è una sineddoche così come lo è il cinema stesso, a scuola. Se i linguaggi divengono divergenti e fluidi a favore di un atto creativo che genera tutto il resto, allora lo divengono tutte le discipline che possono essere sia narrate che mostrate in un’ottica di verticalità ed orizzontalità.
E se L'origine di scuola è latina, infatti la sua etimologia è riconducibile al termine scola (o schola) che deriva a sua volta dal greco σχολή (scholè) che, un po' sorprendentemente, significa ozio, riposo. La scuola allora era proprio il tempo in cui ci si riposava dalle fatiche della vita quotidiana per dedicarsi allo studio, al ragionamento. Il cinema dunque non può che rientrare in questo discernimento. La comprensione di un testo filmico o la sua composizione, il dibattito; il docente-regista ed il discente-sceneggiatore, possono essere una delle tante ipotesi che si potrebbero formulare. Ora più che mai.
Così immagino la scuola che verrà. Una lunga suggestione che contenga ciò che è stato e comprenda ciò che potrà essere.