Descrizione di come è stata affrontata l’emergenza da COVID-19 con i propri studenti::
Parto dal fatto che la pandemia ha dilatato e reso evidente un malessere psicologico ed emotivo latente, come individui e comunità scolastica, tenuto a bada nella fase precedente al suo dilagare, ma pur sempre in azione: adolescenti saturi di informazioni, conoscenze e competenze che però non vengono 'nutriti' (come richiede il senso etimologico del verbo latino 'adulesco', il solo modo per diventare 'adulti' per l'appunto) per stabilire prima di tutto una connessione autentica con se stessi, con gli altri, con la realtà. 'Analfabeti emotivi', 'generazione liquida', perlopiù abbandonati a sé da famiglie risucchiate dalla necessità di gestire e far funzionare al meglio i bisogni 'essenziali' (che troppo spesso riguardano solo la materialità del vivere quotidiano) e da docenti magari 'dotti', ma scarsamente empatici, a loro volta soffocati dalle necessità 'burocratiche' e cadenzate, da modalità ormai inadeguate alle necessità contingenti. Durante il primo lockdown, quando tutti siamo stati colti dallo spavento e dall'urgenza di affrontare un'emergenza che non solo ci coglieva impreparati sotto ogni punto di vista, ma che ci chiedeva di riorganizzare e reinventare un modo possibile e plausibile di fare scuola, abbiamo assistito alla paralisi di alcuni docenti che sono rimasti immobili nel loro vecchio status, mentre altri si davano da fare per riproporre 'a distanza' un modello di apprendimento puramente trasmissivo, che negava - di fatto - l'esigenza più che mai cogente di accorciare quel dover stare ' a distanza'. Guardare i ragazzi negli occhi e provare ad ascoltare il loro spavento, il loro essere disorientati e senza strumenti per leggere i fatti, le sensazioni, il dolore e l'impotenza, tutte le emozioni che quella situazione aveva fatto esplodere.
La prima spinta, dunque, è stata quella di sintonizzarmi su quello che poteva essere lo smarrimento iniziale e far sentire loro che tutto quello che stava accadendo faceva tremare anche me, ma che c'ero, restavo comunque un punto di riferimento fermo a loro disposizione e che insieme avremmo trovato un modo per camminare. Per questo ho creato anche momenti extra-scolastici di incontro (se pur virtuale), ascolto, dialogo, confronto e condivisione di esperienze, vissuti e sentire, che non trovavano spazio nelle giornate paradossalmente troppo piene di connessioni, eppure vuote, prive della mancanza di una rielaborazione adeguata e sostenuta.
In secondo luogo, mi veniva chiesto di rimodulare la programmazione iniziale: era più che evidente la necessità di rivedere non solo i tempi, quanto soprattutto i contenuti da proporre e le modalità di interazione: per i primi, mi è sembrato opportuno dare priorità a quelli più risonanti con l'esperienza presente, che potessero diventare occasione di riflessione e acquisizione di una consapevolezza nuova nella lettura degli eventi. Per quanto riguarda le modalità, ho preferito il dialogo guidato, il problem solving, brainstorming, affinché tutti si sentissero in qualche modo coinvolti e chiamati ad uscire - anche solo per un tempo breve - dall'isolamento e dal mutismo che sembrava piombarti addosso quando tutti i microfoni erano spenti e ti sembrava di parlare a vuoto. Inoltre, è diventata estremamente funzionale e benefica la possibilità di lavorare in peer to peer, con le sessioni interattiva a piccoli gruppi, con un tutor che metteva a disposizione del gruppo le competenze acquisite.
Fondamentale è stata, poi, la possibilità di usare la poesia come strumento 'terapeutico', attraverso la quale connettersi col proprio sentire informe e caotico per provare, poi, a dargli una forma, un'espressione che potesse essere condivisa col gruppo, superando la sensazione alienante di essere monadi per creare, invece, comunità viva e partecipe.
Alla fine di quest'anno scolastico è risultato evidente che anche questa situazione è stata un'occasione di presa di coscienza e trasformazione, dentro e fuori di sé.